Recensione: “La regola dell’eccesso” – Renato Tormenta, Susanna De Chiechi

Ricordate la mia recensione di “Tessa e basta“? Dopo averla scritta l’autrice Susanna De Ciechi mi ha contattata e mi ha proposto di leggere il libro “La regola dell’eccesso” che ha scritto in collaborazione con Renato Tormenta.

Questo libro parla della storia di Renato, ci troviamo davanti ad un romanzo biografico. Scopriamolo insieme…
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Il lavoro, i soldi, i viaggi, il sesso, la coca.
Queste erano le cose che contavano.
Non necessariamente in quest’ordine.

A quindici anni Renato contrabbanda sigarette sul mare di Napoli, a diciotto percorre l’Atlantico sulle navi cargo, a venticinque precipita con un ultraleggero in un’afosa domenica di luglio. Sopravvive, ma l’anima è incrinata. Fa una montagna di quattrini e si cura con cocaina, eroina e rhum. Quando le medicine non funzionano, scappa.


Amo ferocemente, disperatamente la vita. E credo che questa ferocia, questa disperazione mi porteranno alla fine. Amo il sole, l’erba, la gioventù. L’amore per la vita è divenuto per me un vizio più micidiale della cocaina. Io divoro la mia esistenza con un appetito insaziabile. Come finirà tutto ciò? Lo ignoro.
Questa è una frase di Pier Paolo Pasolini ed è la prima cosa che leggiamo nel libro, la facciamo nostra e capiamo già che ci aspetterà una storia piena di vizi… ma piena di vita.
Il protagonista, Renato, racconta la sua esistenza piena di lavoro, di soldi, di viaggi, di donne ma purtroppo anche di droga.
Inizia ad avvicinarsi a quest’ultima un po’ per gioco, per passatempo, e quando si rende conto che ormai la sua vita è tale solo quando ne fa uso, che è diventato dipendente, è troppo tardi per uscirne facilmente.
«Ho lavoro, soldi, amici, donne quante ne voglio. Mi piace divertirmi.» Renato aveva ripreso a camminare con un ritmo leggermente accelerato. «Non l’ho fatto perché stavo male per qualcosa. Ho tutto quello che serve e anche molto di più.» «Vede, ho capito che l’eroina non ti dà niente, ti toglie e basta, e che è inutile scappare perché tanto lei ti segue fino alla morte.» Ora si era fermato di fronte alla scrivania, concentrato sui fogli sparsi davanti al professore. «Vuole sapere come sono arrivato fin qui? Sto male, sono depresso. Vivere ogni giorno è una tortura. Mi sento sempre incazzato, incompreso e nervoso. Allora cerco di stare solo e poi mi trovo con il morale ancora più giù. La sostanza era la mia medicina, mi faceva stare meglio, mi calmava. Credevo di stare bene, ma era un’illusione. Un giorno mi sono guardato allo specchio: non ero io, era un altro che pareva un cadavere. Per questo sono qui. Mi sono perso.»
Ho letto qualche libro che trattava con protagonisti che diventavano schiavi di sostanze come la droga o l’alcol prima di leggere questo… le mie sensazioni rimangono sempre le stesse.
Renato ha una vita comune per l’epoca in cui è nato e cresciuto, ha un fratello che si prende cura di lui sempre e comunque, qualunque cosa succeda, potrebbe trovare l’amore solo schioccando le dita ma appena lo vede avvicinarsi si allontana di corsa, riesce a fare soldi in qualsiasi modo, ogni suo lavoro funziona… allora cosa gli manca?
Quando assume una domestica, e quest’ultima porta a casa dopo un po’ di tempo la nipotina appena nata, Renato diventa anche un padre.
Perché si rifugia nella droga e nell’alcol? Perché non riesce a farlo per i suoi parenti o per gli amici, per quella figlia acquisita e fatta sua o per se stesso?
Non sono mai passata in simili dipendenze e alla fine penso che deve essere proprio difficile uscirne… ma la mia domanda è: perché entrarci?
Questi libri secondo me sono utili perché testimoniano di persone che sono diventate schiave di sostanze, che hanno perso la capacità di vivere senza un aiuto (sbagliato!) e ci urlano contro di non avvicinarci mai a qualcosa che può renderci “dipendenti”.
La parola “dipendente” è curiosa… dipendere da… vivere in funzione di…
Vivete in funzione della vostra vita, per voi stessi e per nessun altro e nient’altro!
Renato alla fine lo capisce… e spero che lo capiscano tutti.

White Death – Tim Vicary // Un libro in inglese

Dalla “Oxford” arriva, richiedendo un livello di inglese veramente basso, “White Death” (morte bianca) di Tim Vicary.

7378964Letto il secondo anno delle superiori è un romanzo mistery che può appassionare soprattutto perché parla di droga e di indagini poliziesche su una ragazza che è stata arrestata per uno sbaglio.
Purtroppo, e sottolineo questa parola, solo solo 6600 parole perciò se avete un buon livello di inglese lo finite in due ore e neanche.

A me è piaciuto e vi sto consigliando questo libro perché penso che delle letture in lingua (insieme ad altri piccoli trucchetti) possano sempre aiutare la gente a migliorarsi nel parlare, nel leggere e nel capire l’inglese.

Trama:

Sarah Harland is nineteen, and she is in prison. At the airport, they find heroin in her bag. So, now she is waiting to go to court. If the court decides that it was her heroin, then she must die. She says she did not do it. But if she did not, who did? Only two people can help Sarah: her mother, and an old boyfriend who does not love her now. Can they work together? Can they find the real criminal before it is too late?

Recensione: Alfredo – Valentina D’Urbano

Vi ricordate “Il rumore dei tuoi passi“? Ma certo che sì.
Ne avevo parlato qui e già vi avevo detto quanto lo avessi amato. Era stato un voto 10, un 5 stelline, il massimo dei voti in tutti i sensi e mi ha lasciato sconvolta per un bel po’…

La carissima Valentina D’Urbano, non contenta di averci straziato con la versione di Beatrice, ha scritto anche il punto di vista di Alfredo. Quante lacrime ho versato secondo voi? E’ da ieri pomeriggio che non riesco a leggere altri libri.

«Nel 2010, chiusa nella mia stanza», racconta Valentina D’Urbano, «scrivevo Il rumore dei tuoi passi raccontando la storia dal punto di vista di Beatrice. Ma già mi domandavo che cosa stesse succedendo nella testa di Alfredo.» Così è nato questo libro, come un regalo per sé (per il suo trentesimo compleanno) e per i suoi lettori, che volevano sapere di più di Alfredo. Una specie di «ritorno a casa».

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Alla Fortezza – il quartiere senza identità, con l’asfalto riarso dal sole e spaccato dal gelo, e i palazzi dall’intonaco ruvido e sbrecciato – tutti li chiamano «i gemelli». Perché da sempre Beatrice e Alfredo sono inseparabili, come fratelli appunto. O forse qualcosa di più? La loro storia, struggente e tragica, diventerà quasi una leggenda nel quartiere. Ma a narrarla finora è stata soltanto Bea, la metà più forte dei «gemelli», la ragazza cui bastava sentire l’odore di Alfredo sulla maglietta verde che lei stessa gli aveva regalato per sapere che lui ci sarebbe sempre stato. La giovane donna che ha lottato fino alla fine per sentire il rumore, inconfondibile, dei suoi passi. Questa invece è la storia della metà più debole dei «gemelli» e a raccontare l’arrivo alla Fortezza è Alfredo, in prima persona, con la sua voce, le sue fragilità, i suoi piccoli e grandi sogni così difficili da realizzare e così facili da infrangere. Fino all’incontro che gli cambierà la vita: quello con Beatrice.


Il punto di vista di Beatrice mi aveva turbato nel profondo perché è lei che perde Alfredo, è lei che rimane sola, lei che deve combattere per lui e poi andare avanti.
Il punto di vista di Alfredo, però, è stato anche peggio. Alfredo è quello che se ne va, quello che non riesce a resistere alle tentazioni sbagliate neanche per la persona che ama.
Gli ultimi due capitoli, poi, sono stati veramente assurdi. Dopo il primo libro ero stata tormentata da qualche domanda ma ce n’era una che mi attanagliava più di tutte: volevo sapere se Alfredo fosse consapevole di una certa cosa.
Lo era.
E penso che questo mi abbia distrutta più di tutto.
Anche questo libro, ovviamente, è un 10… ma penso di denunciare Valentina perché mi provoca dei danni morali assurdi.